Un articolo su New Republic stronca la mania delle scuole 
newyorchesi di insegnare il francese ai propri allievi e le pretese dei 
genitori di farglielo imparare: “Non serve a niente, meglio il cinese o 
l’arabo”
Chissà i francesi come l’hanno preso. Ma magari non l’hanno neppure 
letto. Il pezzo di John McWhorter ha infatti due caratteristiche 
indigeste per un eventuale lettore gallico: è stato pubblicato da una 
rivista americana, “New Republic”, ed è in inglese. Se però a Parigi 
qualcuno si è dato la pena di affrontare l’immane fatica di decrittare 
qualcosa non scritto in francese, gli sarà saltata la mosca al naso e 
l’arguta prosa di mister McWhorter gli avrà fatto la stessa atroce 
impressione di bere uno champagne caldo o un cognac freddo. Già il 
titolo è una stilettata al cuore di ogni francese, che non è la sua 
cucina come si potrebbe pensare, ma la sua lingua: “Let’s stop 
pretending that french is an important language”, fatela finita di 
credere che il francese sia una lingua importante. Merde! Più che un 
titolo, un ceffone. Addio Molière, ciao Racine, bye bye Voltaire e tanti
 saluti a Sartre. 
In realtà, McWhorter infierisce su una ricerca, riportata dal “New York 
Times”, secondo la quale nelle scuole pubbliche di New York è boom 
dell’insegnamento del francese, terza lingua straniera più studiata dopo
 spagnolo e cinese. Ovviamente, l’editorialista di “New Republic” non 
contesta la notizia, perché contestare qualcosa scritto dal NYT sarebbe 
come sostenere che i tombini di Roma funzionino bene; contesta, e 
pesantemente, che questo ritorno di fiamma per il francese abbia un 
senso. A parte forse titillare il sedimentato senso di inferiorità 
americano per la “sofisticazione” europea e per il sedimentatissimo 
senso di superiorità dei francesi, in effetti oggi lo studio del 
francese appare un reperto del passato come una tivù in bianco e nero o 
un’intervista a De Mita. “The era of Henry James is long past”, 
maramaldeggia il Mc, secondo il quale il francese è una specie di 
anticaglia di un mondo in cui era ancora considerato chic avere l’erre 
moscia. E, da buon yankee pratico, consiglia alla figlia duenne di 
imparare prima il cinese, poi semmai l’arabo, l’immancabile spagnolo 
(ormai gli States sono più bilingui dell’Alto Adige), non certo il 
francese, “to communicate whit… who, exactly?”. Beh, magari con i 
francesi che se sono doc parlano una sola lingua: la loro. 
Il pezzo di “New Republic” è fazioso, brillante e veritiero. Ma non 
scalfirà le radicate certezze transalpine. E’ incredibile quanto un 
popolo così intelligente possa autoingannarsi. Da decenni, i francesi 
vivono in un mondo che parla l’inglese ma insistono a negarlo. In ogni 
consesso internazionale, i loro delegati piantano grane epocali 
(ovviamente in francese) pretendendo la parità linguistica con l’odiato 
idioma anglosassone. Dal Seicento, l’Académie française è impegnata 
nella compilazione del Dizionario e veglia sulla purezza della lingua. I
 giornali sono pieni di articoli sulla lingua e di lettere di lettori 
che ne contestano le conclusioni, l’ortografia è un’ossessione 
nazionale, sbagliare una concordanza espone al pubblico ludibrio e si 
insiste a dire e scrivere “ordinateur” invece di computer e “fin de 
semaine” invece di week-end. Esiste perfino un grottesco Ministero della
 Francofonia incaricato di vegliare sulla diffusione del francese e sul 
suo “rayonnement” nel mondo, che regolarmente organizza dei vertici 
mondiali della Francofonia con il Presidente della Repubblica, qualche 
vallone, qualche svizzero, il monegasco e dei Capi di Stati africani che
 hanno avuto la sfortuna di essere stati colonizzati da Parigi e non da 
Londra e cui tocca quindi far studiare ai ragazzi l’inglese a scuola. 
A che pro tutta questa fatica linguistica? In pratica, a nessuno, come 
ben sa qualsiasi uomo d’affari francese (ne esisterà pure ancora 
qualcuno) che, appena decollato dal De Gaulle, si mette a parlare 
(malissimo) l’inglese, se vuol vendere al resto del mondo il camembert o
 una centrale nucleare. D’accordo, dunque: il francese non serve più. Ma
 poi magari uno riprende in mano, che so, i Mémoirs d’outre tombe oppure
 la Recherche e, tutto sommato, non gli dispiace di aver sacrificato gli
 anni migliori della sua vita per capire la sottile differenza fra 
partir pour e partir à… 
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