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venerdì 24 febbraio 2017

Come sarebbe il nostro pianeta senza di noi?

Il nostro pianeta sta piano piano morendo e gran parte della colpa é nostra, perchè la trascuriamo e con le nostre fabbriche la inquiniamo a livelli elevati,gli esseri umani sono senza dubbio la specie più invadente mai vissuta sulla Terra. In poche migliaia di anni ci siamo appropriati di più di un terzo delle terre emerse, occupandole con le nostre case, i nostri campi e i nostri pascoli. Secondo alcune stime, ormai controlliamo il 40 per cento della capacità produttiva del pianeta. E ci stiamo lasciando alle spalle un bel disastro: praterie arate, foreste rase al suolo, falde acquifere prosciugate, scorie nucleari, inquinamento chimico, specie invasive, estinzione di massa. E ora anche lo spettro del cambiamento climatico. Se potessero, le altre specie con cui dividiamo la Terra ci caccerebbero senza esitare. 
Il lato positivo della scomparsa della razza umana è che la natura riprenderebbe ciò che un tempo era suo, per esempio le grandi città che conosciamo in un lasso di tempo inizierebbero a cambiare,i campi e i pascoli tornerebbero a essere praterie e foreste, l’aria e l’acqua purificherebbero dalle sostanze inquinanti e le strade e le città diventerebbero polvere, anche le dighe che hanno bisogno di noi per trattenere l'acqua Senza delle adeguate manutenzioni da parte nostra potrebbero collassare, e quindi le città vicine verrebbero sommerse o ripopolate dagli animali acquatici presenti in natura, o magari da nuove specie a noi sconosciute.
“La triste verità è che il paesaggio migliorerebbe notevolmente una volta usciti di scena gli esseri umani”, sostiene John Orroc.
Se non ci fossero più gli esseri umani, il cambiamento sarebbe subito evidente perfino dall’orbita terrestre: il bagliore delle luci artificiali che illuminano le nostre notti comincerebbero lentamente a spegnersi. Secondo alcune stime, l’85 per cento del cielo europeo è inquinato dalla luce. Gli Stati Uniti sono al 62 per cento e il Giappone al 98,5 per cento. In Paesi come la Germania, l’Austria, il Belgio e i Paesi Bassi non c’è più cielo notturno privo di inquinamento luminoso. “In poco tempo – uno o due giorni – comincerebbero i primi blackout, perché nessuno alimenterebbe più le centrali”, spiega Golden Masterton, presidente dell’Istituto di ingegneria civile di Londra. Le fonti di energia rinnovabili come le turbine a vento e i pannelli solari manterrebbero automaticamente accese un po’ di luci, ma senza la manutenzione della rete di distribuzione anche quelle sarebbero fuori uso in poche settimane. Senza elettricità si fermerebbero le pompe idrauliche, gli impianti per il trattamento dei liquami e tutti gli altri macchinari della società moderna.
Il lato negativo è che La mancanza di manutenzione renderebbe fatiscenti edifici, strade, ponti e altre strutture. Le costruzioni moderne sono progettate per durare in media sessant’anni – i ponti arrivano a 120 anni e le dighe a 250 – ma questa durata presume che qualcuno le mantenga pulite, blocchi le perdite e risolva eventuali problemi alle fondamenta. Senza le persone che svolgono questi compiti apparentemente insignificanti le cose andrebbero rapidamente a rotoli. Un buon esempio è la città di Pripjat’. Questo centro nelle vicinanze di Cernobyl, in Ucraina, fu abbandonato dopo il disastro nucleare del 1986 ed è rimasto deserto. “Da lontano si ha ancora l’impressione che sia una città viva, ma gli edifici stanno lentamente andando in rovina”, spiega Ronald Chesser, un biologo dell’ambiente del Politecnico di Lubbock, nel Texas, che ha lavorato a lungo nella zona di esclusione attorno a Cernoby. “L’elemento più invasivo sono le piante: le loro radici si sono infila- ˇ te nel cemento, dietro i mattoni, negli stipiti delle porte, e stanno rapidamente distruggendo le strutture. Non ci rendiamo conto di quanto sia importante intervenire nelle nostre case per evitare fenomeni di questo tipo. È incredibile vedere come le piante riescono a invadere ogni più piccolo angolo”. Se nessuno si occupasse delle riparazioni, ogni temporale, inondazione o gelata si porterebbe via un pezzo degli edifici abbandonati, e nel giro di qualche decennio i tetti comincerebbero a cedere. A Pripjat’ sta già succedendo. Le case di legno e altre strutture di piccole dimensioni, costruite con criteri meno rigorosi, sarebbero le prime a crollare. Subito dopo toccherebbe quasi certamente alle strutture di vetro che oggi apprezziamo tanto. “Gli eleganti ponti sospesi e gli edifici dalle forme leggere risulterebbero più vulnerabili”, aggiunge Masterton. “Sono meno resistenti degli edifici costruiti con mattoni, archi e volte”. Ma anche se le costruzioni crollassero, le loro rovine – soprattutto quelle di pietra e cemento – probabilmente resterebbero lì per migliaia di anni. “Ci sono ancora i resti di civiltà vissute tremila anni fa”, osserva Masterton. “I segni di quello che abbiamo creato resterebbero per molti millenni. Una strada in calcestruzzo potrebbe sgretolarsi in diversi punti, ma ci metterebbe molto tempo prima di diventare invisibile.
La mancanza di manutenzione avrebbe conseguenze particolarmente drammatiche per le centinaia di centrali nucleari attualmente in funzione nel mondo. Le scorie nucleari già depositate in contenitori in cemento e metallo raffreddato ad aria non creerebbero problemi. Quei contenitori sono progettati per sopravvivere a migliaia di anni di oblio, alla fine dei quali il loro tasso di radioattività – essenzialmente sotto forma di cesio 137 e stronzio 90 – sarà diminuito di mille volte, spiega Rodney Ewing, un geologo dell’università del Michigan specializzato nella gestione delle scorie radioattive. Per i reattori attivi la questione non è così semplice: se l’acqua di raffreddamento cominciasse a evaporare o a fuoriuscire a causa di qualche perdita, probabilmente il nocciolo del reattore potrebbe prendere fuoco o fondersi, emettendo grandi quantità di radiazioni. L’effetto di queste emissioni, tuttavia, potrebbe essere meno disastroso di quanto molti pensano. La zona intorno a Cernobyl ha permesso di verificare con quanta rapidità la natura è capace di riprendersi i suoi spazi. “Mi aspettavo di trovare un deserto nucleare”, racconta Chesser, “e invece sono rimasto sorpreso. Nella zona di esclusione si è sviluppato un ecosistema molto ricco”. Nei primi anni dopo l’evacuazione ratti e topi si erano moltiplicati, e branchi di cani selvatici avevano invaso l’area nonostante gli sforzi per sterminarli. Ma l’era di questi animali non è durata a lungo, e la fauna locale ha già cominciato a prendere il loro posto. I cinghiali sono da 10 a 15 volte più numerosi all’interno della zona di esclusione rispetto al territorio circostante; i grandi predatori stanno tornando in massa. “Non ho mai visto un lupo in tutta l’Ucraina. Lì dentro, invece, ce ne sono molti”, spiega Chesser.

-Fernando/Bri

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