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giovedì 4 dicembre 2014

Il francese non serve a nulla - Tinopolis

Un articolo su New Republic stronca la mania delle scuole newyorchesi di insegnare il francese ai propri allievi e le pretese dei genitori di farglielo imparare: “Non serve a niente, meglio il cinese o l’arabo”

Chissà i francesi come l’hanno preso. Ma magari non l’hanno neppure letto. Il pezzo di John McWhorter ha infatti due caratteristiche indigeste per un eventuale lettore gallico: è stato pubblicato da una rivista americana, “New Republic”, ed è in inglese. Se però a Parigi qualcuno si è dato la pena di affrontare l’immane fatica di decrittare qualcosa non scritto in francese, gli sarà saltata la mosca al naso e l’arguta prosa di mister McWhorter gli avrà fatto la stessa atroce impressione di bere uno champagne caldo o un cognac freddo. Già il titolo è una stilettata al cuore di ogni francese, che non è la sua cucina come si potrebbe pensare, ma la sua lingua: “Let’s stop pretending that french is an important language”, fatela finita di credere che il francese sia una lingua importante. Merde! Più che un titolo, un ceffone. Addio Molière, ciao Racine, bye bye Voltaire e tanti saluti a Sartre.

In realtà, McWhorter infierisce su una ricerca, riportata dal “New York Times”, secondo la quale nelle scuole pubbliche di New York è boom dell’insegnamento del francese, terza lingua straniera più studiata dopo spagnolo e cinese. Ovviamente, l’editorialista di “New Republic” non contesta la notizia, perché contestare qualcosa scritto dal NYT sarebbe come sostenere che i tombini di Roma funzionino bene; contesta, e pesantemente, che questo ritorno di fiamma per il francese abbia un senso. A parte forse titillare il sedimentato senso di inferiorità americano per la “sofisticazione” europea e per il sedimentatissimo senso di superiorità dei francesi, in effetti oggi lo studio del francese appare un reperto del passato come una tivù in bianco e nero o un’intervista a De Mita. “The era of Henry James is long past”, maramaldeggia il Mc, secondo il quale il francese è una specie di anticaglia di un mondo in cui era ancora considerato chic avere l’erre moscia. E, da buon yankee pratico, consiglia alla figlia duenne di imparare prima il cinese, poi semmai l’arabo, l’immancabile spagnolo (ormai gli States sono più bilingui dell’Alto Adige), non certo il francese, “to communicate whit… who, exactly?”. Beh, magari con i francesi che se sono doc parlano una sola lingua: la loro.

Il pezzo di “New Republic” è fazioso, brillante e veritiero. Ma non scalfirà le radicate certezze transalpine. E’ incredibile quanto un popolo così intelligente possa autoingannarsi. Da decenni, i francesi vivono in un mondo che parla l’inglese ma insistono a negarlo. In ogni consesso internazionale, i loro delegati piantano grane epocali (ovviamente in francese) pretendendo la parità linguistica con l’odiato idioma anglosassone. Dal Seicento, l’Académie française è impegnata nella compilazione del Dizionario e veglia sulla purezza della lingua. I giornali sono pieni di articoli sulla lingua e di lettere di lettori che ne contestano le conclusioni, l’ortografia è un’ossessione nazionale, sbagliare una concordanza espone al pubblico ludibrio e si insiste a dire e scrivere “ordinateur” invece di computer e “fin de semaine” invece di week-end. Esiste perfino un grottesco Ministero della Francofonia incaricato di vegliare sulla diffusione del francese e sul suo “rayonnement” nel mondo, che regolarmente organizza dei vertici mondiali della Francofonia con il Presidente della Repubblica, qualche vallone, qualche svizzero, il monegasco e dei Capi di Stati africani che hanno avuto la sfortuna di essere stati colonizzati da Parigi e non da Londra e cui tocca quindi far studiare ai ragazzi l’inglese a scuola.

A che pro tutta questa fatica linguistica? In pratica, a nessuno, come ben sa qualsiasi uomo d’affari francese (ne esisterà pure ancora qualcuno) che, appena decollato dal De Gaulle, si mette a parlare (malissimo) l’inglese, se vuol vendere al resto del mondo il camembert o una centrale nucleare. D’accordo, dunque: il francese non serve più. Ma poi magari uno riprende in mano, che so, i Mémoirs d’outre tombe oppure la Recherche e, tutto sommato, non gli dispiace di aver sacrificato gli anni migliori della sua vita per capire la sottile differenza fra partir pour e partir à…

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